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Il videogame non è un gioco

Il videogame non è un gioco

Gli adolescenti ritirati usano internet, social e videogiochi per restare in contatto con il mondo. Al convegno #supereoifragili si parla di come utilizzare la tecnologia per tirarli fuori dal loro isolamento. Nostos lo fa con servizi domiciliari e laboratori che sfruttano il videogioco per costruire una relazione

«Quando si pensa all’adolescente di oggi lo si immagina con un sé grandioso, smisurato, e proprio per questo fragile», spiega Dario Ianes, co-fondatore delle Edizioni Centro Studi Erickson, per introdurre il Convegno #supereroifragili, che vuole affrontare il tema dell’adolescenza superando gli stereotipi, anche quelli sulle tecnologie tanto usate dai ragazzi, come social e videogame. «A questa età si alternano comportamenti grandiosi con atteggiamenti di insicurezza e svalutativi. E proprio in queste situazioni, genitori, insegnanti e più in generale tutti gli adulti hanno paura del conflitto, e del possibile dolore che segue la rottura. Dimenticandosi che il conflitto può essere anche sano».

Regole, conflitti, rapporti tra adulti e ragazzi. Sono mille i temi discussi dal convegno del Centro Studi Erickson, che ha aperto anche una finestra sui cosiddetti “ragazzi ritirati”, quelli che si chiudono in casa, si isolano dalle persone che li circondano e mantengono i contatti col mondo attraverso internet e i social. A parlarne al convegno ci sarà lo psicoterapetua Matteo Lancini, che in un’intervista a Repubblica ha sottolineato come non si debbano confondere questi ragazzi con i “tossicodipendenti della Rete”: «Per i “ritirati dal mondo”, i social possono diventare, addirittura, un gancio verso la realtà».

Questa considerazione apre prospettive importanti secondo gli psicoterapeuti di Nostos: «Gli adolescenti reclusi ci sono sempre stati», spiega Angelo Bonaminio, «ma prima di Internet si chiudevano in stanza a leggere fumetti, adesso invece hanno a disposizione una finestra sul mondo che permette loro di entrare in relazione con gli altri. Dobbiamo utilizzare questa finestra a nostro vantaggio».

Oggi in Italia ci sono circa 120mila autoreclusi, che secondo Lancini decidono di isolarsi come conseguenza di un fatto traumatico. Ad esempio: andare a scuola e sentirsi invisibili. «Può succedere, ma non è sempre così», commenta Bonaminio, «spesso è tutto un problema di percezione: adolescenti molto sensibili possono interpretare come fuori posto qualsiasi affermazione e sentirsi a disagio anche in situazioni accoglienti. Cominciano ad allontanarsi e poi piano piano scompaiono».

L’adolescente, infatti, vive nel conflitto tra sentimenti opposti: da una parte il bisogno degli adulti per soggettivarsi, dall’altra la paura che l’intervento dei “grandi” sia una minaccia per la loro autonomia. In tale dinamica, a svolgere una funzione mitigatrice e protettiva può essere il rito di passaggio e cioè il superamento di alcune prove con le quali l’adolescente è tenuto a confrontarsi. Seguire un rito può rassicurare il ragazzo sulle proprie capacità e contemporaneamente fargli affrontare la questione del limite, anche fisico, integrandolo infine nel mondo degli adulti con una iniziazione ai suoi segreti.

Il rito permette un’esperienza creativa in cui il soggetto si sperimenta come protagonista e affronta il paradosso di essere se stesso tramite l’apporto dell’altro. Gli adulti possono fornire ai ragazzi gli input necessari per vivere l’esperienza illusoria di creare essi stessi ciò che viene loro offerto. Il fatto che nella nostra epoca la crisi delle istituzioni ci abbia privato di mediatori utili ai processi identitari e allo scambio tra generazioni rende più difficile che questo rito di passaggio avvenga. Un altro fattore negativo è il diffuso malessere narcisistico insito nella cultura individualistica, caratterizzata da una tendenza alla maniacalità e al senso di onnipotenza.

I ragazzi più sensibili possono trovarsi dunque in un tunnel dove sperimentano l’assenza di referenti per apprendere la propria autonomia. «Gli adolescenti ritirati di solito sono persone molto intelligenti», spiega Bonaminio, «e anche molto forti. Solo che sfogano questa energie nella rabbia e si difendono con l’intellettualizzazione, ad esempio imparando tutto sul cinema, o , come avviene ora più spesso, sui videogame».

Ma è proprio qui, nel cyberspazio, che può essere ricreata quella dimensione collettiva, di socialità allargata, dove gli adolescenti possono compiere i loro riti di passaggio. In un contesto di isolamento e di mancanza di altri luoghi-istituzioni di riferimento, le comunità virtuali e i nuovi media possono essere i luoghi in cui nascono nuovi riti, che quindi possono assumere caratteristiche diverse, che si distinguono per i loro risvolti creativi o distruttivi, per l’essere o meno al servizio della soggettivazione, per permettere il passaggio di conoscenze tra le generazioni o determinare, piuttosto, una frattura tra le stesse

I videogame, ad esempio. Per i ragazzi di oggi il sogno del viaggio, dell’allontanamento dalla famiglia, il desiderio di avventura non sono più realizzabili come un tempo, in un mondo dove l’altrove è già qui. Pertanto, il movimento della separazione, lo spirito della scoperta, la ricerca dell’ignoto possono essere sperimentati proprio nei mondi virtuali. In questi giochi è in primo piano l’aggressività. Come il giovane iniziato delle società tradizionali, che attraverso rituali di passaggio doveva mettere in campo la sua capacità di affrontare il nemico, l’adolescente nativo digitale che aspira a diventare adulto deve confrontare le sue forze, le sue abilità e il suo coraggio con il gruppo. Quindi attraverso il videogioco si incontra una prima possibilità di raffigurarequegli aspetti del proprio funzionamento psichico e corporeo vissuti con stupore, sorpresa o con angoscia.

È per questo motivo che i videogame possono essere utilizzati in un intervento terapeutico di gruppo, all’interno di un laboratorio ludico-espressivo basato sulla condivisione di attività che includano l’uso delle tecnologie digitali. Nel gruppo si può realizzare la diffrazione dei propri investimenti emotivi, prima concentrati principalmente sulle figure genitoriali, e sperimentare nuovi legami in cui proiettare aspetti importanti di sé. E attraverso l’uso in gruppo delle tecnologie digitali si può parlare di sé con gli altri.

Nostos propone dunque i laboratori terapeutici mediati dai videogame per accompagnare gli adolescenti nel loro bisogno di ritualità, stabilendo una routine terapeutica fissa, che possiede una potenzialità simbolica ed evocativa e costituisce una costante affettiva, perché il laboratorio diventa uno spazio in cui si può creare una sorta di cultura comune. «I ragazzi ritirati devono essere messi in rapporto con gli altri, ma per farlo vanno innanzitutto raggiunti», conclude Bonaminio. «Bisogna andare dove sono loro, e cioè nelle loro case, utilizzando i servizi domiciliari. Poi, piano piano, riuscire a portarli fuori, verso esperienze di gruppo come il laboratorio. Perché sennò rischiano semplicemente di crescere e venire dimenticati. Finché sono giovani e vanno a scuola ci sarà sempre qualcuno che si accorge di loro, della loro assenza. Ma se i servizi non li raggiungono, quando avranno trent’anni e gli amici si saranno stufati di provare ad aiutarli, allora sì che rischiano di rimanere completamente soli»