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Home-schooling: un fallimento per l’istruzione pubblica

Home-schooling: un fallimento per l’istruzione pubblica

Aumentano i genitori che tengono i figli in casa, sostituendosi a maestri e professori. Una reazione di rifiuto nei confronti di scuole obsolete e burocratizzate. Ma nessuna attività domestica potrà rimpiazzare la socializzazione dell’esperienza formativa, necessaria per avviare un percorso di crescita e separazione dalla famiglia. L’opinione del professor Nicola Comberiati. 

Cos’è l’home-schooling? È l’istruzione fatta in casa, quella che evita le aule e i professori per riservare ai genitori tutte le attività di apprendimento (vedi qui). Di fatto, l’home schooling è sintomo di un disagio della istituzione scolastica, che non riesce a soddisfare tutte le esigenze o a rispondere a tutte le richieste di formazione o di protezione delle famiglie.

Come ogni sintomo, anche questo va interpretato fenomenologicamente, aprendo un dibattito che possa funzionare da stimolo alla scuola attuale per superare la burocratizzazione e l’ossequio ideologico che la contraddistinguono.

Di fatto, nonostante qualche recente imbellettatura, tutte le riforme che hanno riguardato l’istruzione in Italia non hanno scalfito l’impianto dato da Giovanni Gentile nel 1923, che proponeva una rappresentazione del mondo di stampo hegeliano, dove la materia (e quindi l’aspetto più tecnico e prativo) rappresentava una tentazione, una decadenza dello Spirito, che invece trovava la sua realizzazione nelle produzioni più teoriche dell’uomo (arte, religione e soprattutto nella filosofia).

Quando questo impianto si è sposato con la ratio studiorum dei Gesuiti, ha dato corpo a una struttura scolastica rigida, selettiva, severa, ben lontana dalla tradizione pedagogica del Rinascimento Italiano che, da Comenius a Erasmo, passando da Leonardo Da Vinci per arrivare fino a Galileo e Vittorino da Feltre, ha introdotto il metodo scientifico della ricerca e della produzione attiva della cultura.

In seguito alla riforma Gentile, poi, l’affermazione costituzionale del diritto allo studio non è andata di pari passo con un’elaborazione culturale di un nuovo modello scolastico che sapesse coniugare teoria e prassi senza cadere nel lassismo, nell’eccessiva fedeltà al formalismo dei programmi, nelle obsolete pratiche delle bocciature o nella gimcana di scrutini troppo formalizzati per essere veri.

Formalmente, infatti, si declamano i principi del protagonismo attivo, della ricerca, della personalizzazione dell’apprendimento, dell’inclusione, ma in realtà si il sistema resta impigliato nella rete della sudditanza al formalismo burocratico.

La scuola italiana oggi è una frammentazione anarchica, dove alcune monadi brillano di luce propria e altre si esauriscono stancamente nella fioca luce dell’abitudine.

Diciamo allora che la diffusione dell’istruzione domestica nasce da un rifiuto del sistema scolastico tradizionale, un rifiuto spesso non legato a una nuova rappresentazione pedagogica del sistema, come quella proposta da Maria Montessori o da Rudolf Steiner (a cui pure ci si ispira). L’home-schooling è una scelta che deriva soprattutto da una forma di risentimento, da una sorta di rifiuto del sistema istituzionale. Chi educa i propri figli a casa non vuole più lottare contro certe storture dell’istituzione scolastica (classi numerose, voti, abbandoni, bullismo) e preferisce crearsi un sistema a proprio uso e consumo, a costo di farlo con improvvisazione e frettolosità, pur di limitare la sofferenza dei figli ed evitare l’urto con farraginose organizzazioni e strutture scolastiche.

Se si prova ad applicare questo stesso schema a un altro settore altrettanto “deturpato”, come quello della produzione agricola – inquinata, falsificata, gestita dalle mafie – è evidente che non sarebbe sufficiente ritornare a un sistema di autosussistenza familiare per eliminare i pericoli per l’organismo umano. Ma alla radice della scelta dell’home-schooling c’è una visione rigidamente dualistica: da una parte una famiglia “buona”, dall’altra un mondo scolastico “cattivo”.

Una visione , questa ,che spesso confonde i termini “educazione” e “formazione”. L’”educazione” compete da sempre alla famiglia ed è la piattaforma di strumenti come sensibilità, affettività ed emotività che inoculano nei figli la speranza nel futuro.

La “formazione”, invece, è storicamente determinata da un sistema di apprendimento che crea linguaggi di appartenenza, riflessioni epistemologiche, approfondimenti organizzati secondo lo sviluppo cognitivo delle nuove generazioni.

La formazione non è solo l’incontro con la storia antropologica del sapere, ma è anche entrare in un sistema relazionale e cimentarsi in una dialettica critica del sapere, per non rimanere imbrigliati nel plagio del familismo e della vita domestica.

Insomma, la scuola pubblica è anche un esperimento di socialità dove, con molte difficoltà, si fanno prove di cittadinanza attiva, di ascolto e di educazione critica alla visione del diverso. Tutte esperienze che nella homeschooler sembrano trascurate o rimandate a quando i ragazzi si sentiranno maturi per affrontarle.

Nel frattempo, si ingigantisce l’atteggiamento protettivo sui propri figli, accentuando le identificazioni parentali già fortemente costruite con le ambivalenze degli affetti familiari. «Crescere insieme, genitori e figli, come una tribù che si auto educa ogni giorno», scrivono i sostenitori dell’home-schooling. È questo il punto più controverso della loro teoria. Il corpo, che con la nascita ha fatto il suo ingresso nella vita, prende autonomia col taglio del cordone ombelicale, ma per i genitori questo gesto è all’origine di una paura di perdita dell’oggetto d’amore e per il figlio un salto nel buio. Per attutira il trauma, si tenta di occupare e proteggere con l’amore, oltre all’ambito emotivo, anche quello della formazione, evitando strutture e personaggi che non potranno mai comprendere il figlio come i genitori.

Il percorso culturale, in realtà, ha come obiettivo quello di far ritrovare al ragazzo la propria identità e originalità, attraverso la mescolanza di uomini, libri, scoperte, incontri con altri compagni e professori di varia estrazione politica e antropologica. Mentre cresce la cultura e la consapevolezza dell’essere, ci si allontana e ci si libera dai propri genitori. La ricerca della propria originalità non può che passare attraverso la separazione, a volte sofferente, dalle figure parentali. Procrastinare il tempo della liberazione dei figli, alla lunga, potrebbe rivelarsi coma accumulo di un capitale di risentimento, preludio di rivolte molto più pericolose delle difficoltà da cui si volevano proteggere i figli.

Certo, ci sono situazioni in cui i genitori sono costretti a intervenire per la totale assenza dello Stato: luoghi isolati, assenza di trasporti pubblici, scuole di montagna dove è difficile strutturare un organico, o situazioni limite di istituti totalmente inaffidabili per incompetenza del dirigente o dei docenti. Per fortune queste situazioni-limite sono ormai ridotte al minimo.

È necessario, comunque, mantenere il senso delle lotte che riteniamo necessarie per cambiare il sistema. L’obiettivo non è la protezione del proprio figlio, ma una battaglia universale che innalzi il livello di cultura per tutti e sia di stimolo alle istituzioni per ripensare le proprie metodologie organizzative. Forse sarebbe il caso di cambiare mentalità a partire dalle scuole pubbliche: i genitori non sono la controparte, ma una risorsa. E il riappropriarsi della scuola come centro civico potrebbe essere l’inizio di una crescita culturale e umana per tutti.