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Perché gli adolescenti si radicalizzano

Perché gli adolescenti si radicalizzano

«Per superare l’infanzia tutti passano attraverso un percorso di radicalizzazione. È quando trovano ostacoli che rischiano di deviare verso forme si estremismo come il jihadismo». L’intervento dello psicoanalista Gutton ha aperto il seminario del 4 marzo presso la Direzione formazione del Dap. A chiudere la giornata, l’intervento del magistrato Francesco Cascini sul tema del proselitismo in carcere      

Il 4 marzo 2017 la Direzione generale di formazione del DAP insieme all’Arpad ha organizzato un seminario sui Radicalismi in adolescenza. I due relatori, lo psicoanalista Philippe Gutton e il capo dipartimento giustizia minorile e di comunità Francesco Cascini, hanno affrontato il tema della seduzione jihadista sui giovani, dei possibili percorsi di deradicalizzazione e del fenomeno del proselitismo in area detentiva.

Lo psichiatra Gutton ha cercato innanzitutto di inquadrare la figura dell’adolescente e di spiegare come la sua fase evolutiva si presti ad abbracciare ideologia totalitarie e “di rottura”. Non ci sono, sostiene Gutton, parametri fissi che ci aiutano a disegnare il profilo

dell’adolescente a rischio, perché tutti gli adolescenti sono caratterizzati da una volontà di costruire loro stessi che è una radicalizzazione, cioè una ricerca del loro radicale, della radice del loro essere. Sono gli ostacoli che trovano nel loro percorso di “radicalizzazione” che possono portarli a una devianza o a un’alienazione.

In questa fase i cambiamenti possono essere molti repentini e i genitori possono non accorgersene neanche, come è avvenuto in molti casi di giovani che improvvisamente sono partiti per combattere in Siria.

Gutton fa un primo esempio: un 15enne francese di origine marocchina incontrava giovani che frequentavano la moschea e si è appassionato alla religione. La famiglia era laica e si è preoccupata: ha cominciato a punirlo per le sue frequentazioni. Quando sono andati dalla psichiatra, il ragazzo non le ha dato la mano, facendo infuriare il padre. Dopo aver parlato con la terapista però, constatato che lei gli dedicava il suo interesse e la sua curiosità, l’adolescente la saluta stringendole la mano. Perché il ruolo dell’adulto è soprattutto d’ascolto.

La soluzione jihadista è una risposta alla percezione di non avere via d’uscita, una reazione a uno stato d’animo che Gutton chiama di mauvaisitè, un’impressione di vuoto e di impossibilità, il sentirsi imprigionato in un labirinto di assoggettamento.

A questa condizione si può reagire in due modi: uno depressivo, vittimizzandosi e assegnandosi discriminazioni, avvertendo un blocco in ambito sociale, familiare e interiore; e uno attivo, paranoico, “il mondo mi blocca e io lo attacco”.

In questo secondo caso, il discorso jihadista offre tutte le risposte, annullando di fatto la crescita e la conquista dell’autonomia. Le sue armi sono:

-l’amalgama: mettere insieme ambito sociale, familiare e interiore in un ideale totale

l’inaugurazione: ti propongo una nuova partenza per uscire dal blocco

– il manicheismo: divisione chiara tra bene e male e offerta di una nuova dipendenza buona che rompe completamente col passato.

In Francia sono stati attivati dei seminari di “deradicalizzazione” attraverso un gruppo di terapia che comprende educatori, poliziotti e almeno una persona tornata dalla Siria o fermata prima che partisse.

Gutton ne parla raccontando la storia di Lea, una ragazzina bretone di 15 anni che aveva deciso di partire per il jihad. Il seminario in cui è stata coinvolta è iniziato con vari interventi di poliziotti e psicologi che le spiegavano l’irrazionalità della sua scelta, mentre lei stava zitta. Nel gruppo ognuno dava motivazioni diverse e ognuno forniva il suo punto di vista parlando di se stesso. In pratica, si sono formati tanti sottogruppi e Lea ha cominciato a sentirsi vicina a una ragazza che come lei si era convertita all’islam e aveva un’esperienza simile di radicalizzazione. Lea si è sentita meno sola e ha creato uno spazio di intimità. Mentre entrava in questo spazio, la mano della mamma – che le sedeva accanto – si è appoggiata sulla sua e le ha ricordato la sua infanzia, quando quella mano le dava sicurezza. In quel momento Lea ha accettato di stringere quella mano e ha mostrato una prima apertura.

In seguito all’intervento di Gutton ha preso la parola Francesco Cascini, capo del dipartimento per la giustizia minorile.

Cascini ha sostenuto che, anche se è difficile individuare dei parametri di rischio, abbiamo bisogno di strumenti di analisi per formulare strategie di prevenzione.

Il problema è che in Italia si agisce solo con strumenti di polizia e con le indagini su possibili reati connessi alla radicalizzazione, mentre si fa poco per la prevenzione dell’estremismo.

In carcere, ha riferito Cascini, dobbiamo ancora trovare soluzioni per impedire il proselitismo. Il momento più a rischio è quello della preghiera collettiva, ma laddove è stata vietata si è sviluppato forte risentimento e sono scoppiate delle violente proteste.

L’idea di controllare gli estremismi dando incarichi soltanto a imam “verificati”, che siano stati formati secondo percorsi approvati dalle autorità, è controproducente, perché continua a interpretare il problema del radicalismo come un problema religioso e a contrastarlo con una “controindottrinazione” che mira a dare le regole “giuste”. Non è offrendo una religione con altri paradigmi che si contrasta la ricerca di un’idea radicale di chi vuole combattere la propria battaglia contro il mondo.

E anche l’azione di polizia, per quanto rassicurante per l’opinione pubblica, non risolve il problema.

Con i giovani, ha sostenuto Cascini, bisogna avere un approccio multidisciplinare, che mette in contatto le politiche sociali e sanitarie con quelle giudiziarie. Ma non è facile coniugare questi settori, soprattutto dal momento in cui la giustizia viene gestita a livello nazionale mentre la sanità a livello locale.